Zales TBD

Blog di sana e robusta risoluzione

MI piacciono le sorprese

Il suono della tromba irrompeva a singhiozzo per il vicolo, la porta lasciava filtrare luci intermittente. Ad ogni cambio di luce corrispondeva un cambio d’aria fumosa, che si andava a mischiare con la nebbia leggera della città e con gli scarichi oleosi delle macchine sulla strada. Due bidoni verdi arrugginiti con il coperchi a pedale nascondevano la visuale sulla porta, ma la scritta luminosa sulla porta non lasciava spazio a dubbi. JAZZ CLUB, al neon rosso, vagamente barcollante.

La banale classicità della scena avrebbe tenuto lontano l’avventore medio dei locali del giovedì notte, m qualche sprovveduto turista si faceva attrarre da quell’insegna e dall’atmosfera anni ’50. La città non ci interessa davvero, potrebbe essere Boston, New York, Stoccolma, Parigi o persino Praga.

Scoprii quel club in una delle mie passeggiate solitarie per la città, non ero più soddisfatto dal porto, dai parchi, dai locali alla moda del centro, dai kebab nei bassifondi riqualificati. In cerca della vera città percorsi strade senza nome, senza parchi, senza statue, senza targhe, solo lavanderie a gettoni, lampioni fiochi e piccoli supermarket aperti ventiquattrore su ventiquattro.

In questo solitario peregrinare, la luce tremolante, il fumo ed il movimento di persone dal club mi lasciò senza fiato. Poche volte nella mia piccola vita ho avuto quella sensazione stucchevole di perversa nostalgia. Quel locale, quell’ingresso, quell’aspettativa mi attirarono ad entrare.

I miei occhi malconci ci misero poco ad abituarsi alla luminosità del locale, buio praticamente uguale all’esterno, ma le orecchie, quelle vennero investite da un assolo disumano di tromba, giusto verso la fine.

Il complesso, su un palchetto scuro coperto di tappeti scadenti e logori era immobile, in attesa di dell’attacco del loro compagno. Il piede invisibile del batterista segnava il tempo dolcemente, unico accompagnamento alla tromba. Con una nota lunga e straziante, il musicista terminò il suo assolo, ed i colleghi ripresero a suonare un adagio classico di Chet Baker, di cui non ricordo il nome.

La mia immobile presenza sulla porta d’ingresso venne notata solo dal barista che in un moto di professionale compassione mi invitò al bancone.

Era magro, molto magro, con baffetti alla torero ed indosso un gilet con taschini cuciti, ed un cravattino verde pisello, consumato sul nodo per l’eccessivo sfregamento contro la barba e dil dito che andava a stuzzicare il colletto della camicia in un tic nervoso, o un tentativo di evitare il soffocamento.

Appoggiai il cappotto sul primo sgabello vuoto e mi accomodai alla sinistra di quello, praticamente in centro al bancone. Dallo specchio di fronte a me potevo scorgere il riflesso, nello spazio tra una bottiglia di fernet ed una di whiskey, gli altri avventori del locale.

Due cinesi in giacca, ma con le cravatte in tasca che bevevano martini.

Quattro ragazzetti con un accenno di barba, le camice colorate sbottonate, le maniche arrotolate, impegnati a fare i galli per le tre ragazze al tavolo di fianco al loro. Chiaramente turiste, chiaramente dell’europa del nord, chiaramente ricche.

“Il ragazzo biondo con gli occhiali tornerà a casa da solo…” scommisi tra me e me, “nonostante sia il più belloccio.”

Nell’angolo opposto alla porta, al tavolo più vicino al bancone, una coppia di signori visibilmente alticci e visibilmente abitudinari si alzarono per ballare sul motivetto di un classico di B.B. King ancheggiando a tempo con il giro di contrabbasso, scatenando il resto del corpo in una pazza danza ubriaca come i ballerini, come i musicisti, e come spero fosse B.B King quando la compose.

Seguendo i ballerini mi voltai verso lo spazio lasciato libero, e distrattamente ordinai un ginlemon al barista inoperoso.

Con le spalle al bancone, ed i piedi incastrati nello sgabello, non notai che il mio cappotto aveva lasciato il posto ad una rossa che urlò al barista: «Fai un altro di quello che stai facendo, mi piacciono le sorprese…».

Mi girai verso il bancone con il fiato sospeso dandole le spalle per un tempo necessario a tirare il fiato. La concentrazione raggiunta per non guardare in quel baratro accogliente con il bordo verde mi fece quasi sudare, ma il magnetismo dei suoi occhi smeraldo mi fecero dimenticare in fretta del locale, del mondo, del cocktail appena arrivato, e del resto della mia vita…

IN QUESTO RACCONTO SONO PRESENTI LE RISPOSTE ALLE TRE DOMANDE, NASCOSTE NELLO STILE DI SCRITTURA, E NELLE DESCRIZIONI, MA SO GIÀ CHE NON SARÀ VALIDO COME ESAME DI PSICOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE PERSUASIVA.

Si, ho scritto questo come esame, e se proprio lo volete sapere, le domande erano:

  1. I principi di automatismo: le euristiche (Cialdini)
  2. La memoria
  3. Il modello AMO (Vari step di coinvolgimento)

Al momento di consegnare però mi sono tirato indietro, che dite, lo continuo?


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